Se la mamma (profe) va in pensione

Se la mamma (profe) va in pensione

Di Matteo Salvatti

     “Quanto” siamo noi a fare un lavoro e “quanto” è un lavoro che fa di noi quello che siamo? Quanto un mestiere insomma segna noi e quanto siamo noi a lasciare una traccia in quel mondo?

     Oggi mia mamma, Ermenegilda Baronchelli, va in pensione come professoressa di lettere dopo quarant’anni di servizio. Un tempo si scriveva “onorato”, ora il termine “onore” è legato solo agli “onorevoli” e alle “onoranze funebri”, per cui si preferisce soprassedere sul distintivo.

     C’è chi lascia il lavoro fuori dalla porta di casa, e chi porta il lavoro in casa. C’è anche chi porta i figli sul lavoro. Gli insegnanti sono l’unica categoria che porta il lavoro ai figli. Sebbene non siano direttamente i fruitori diretti del loro impegno, in senso lato (ma nemmeno poi tanto) i ferri del mestiere invadono la bolla prossemica dell’abitazione da sempre. Non ho mai percepito quanto la mia casa fosse ricca di pane, certo ho sempre constatato quanto fosse ricca di libri. Erano degli strani fratelli: la mamma li accarezzava come accarezzava me, loro però se li portava al lavoro e soprattutto mi chiedeva di prendermene cura, perché a differenza degli altri oggetti i libri diventavano tristi se lasciati intonsi e palpitavano se erano sgualciti e usati. Nessuna stanza li escludeva. Ho chiara l’immagine di lei con il libro di latino in mano (i giorni antecedenti al concorso) mentre ripassava assiepata tra i saponi sul bordo della vasca da bagno intanto che io facevo le prove di immersione.

     Insegnando lei nel mio istituto certo mi ha svantaggiato, perché essere etichettato come “Il figlio della profe” non aiuta, il privilegio, anche quando è solo ipotizzato, fa da scherma alle relazioni. E poi il privilegio da adolescenti è quello di poter sbagliare, non di esserne legittimato.

     E’ capitato che fosse di supplenza nella mia classe: chiederle il permesso di andare in bagno costituì il più plastico ossimoro della mia vita.

     E’ stata un’insegnante che non ha mai preteso di far appassionare alla disciplina: forse per questo in tanti l’hanno amata (lei, e la disciplina). Per lei la filosofia andava materializzata: anni fa stupì quando introdusse l’uso di portare fiori sulla cattedra; era il suo modo per dimostrare che solo nel bello si può edificare il giusto, perché l’etica non può essere svincolata dall’estetica.

     Vent’anni fa, dopo una bocciatura, ricevette delle minacce di morte: fu da allora che capii che piacere a tutti nella vita avrebbe significato essere sulla strada sbagliata.

     Una volta fu operata e fu costretta a casa per qualche settimana: tutti gli studenti inscenarono un pellegrinaggio devozionale a casa. Anche a distanza di anni gli alunni si ricordano di lei, tutti. Forse han scordato le sue lezioni, ma sono rimasti impressi i momenti con lei, segno evidente che non si insegna ciò che si sa, ma soltanto ciò che si è. Non ha mai maneggiato il sapere come materia antecedente ai ragazzi: piuttosto che occuparsi di letteratura in altri ambiti, avrebbe preferito insegnare un’altra materia. La lezione non era mai stazione di testa, ma sempre di transito. L’approdo non si vidimava con la data memorizzata. Per questo non accolse sfavorevolmente lo scisma delle innovazioni tecnologiche planare sulle cattedre che videro altri esultare e taluni raccapricciare.

     La sua dote più grande è sempre stata quella del buon senso. Ho sempre ritenuto che chi riuscisse a decifrare centinaia di grafie su di un foglio di protocollo non avrebbe avuto problemi a gestire un ministero o una multinazionale. Le lettere messe insieme in modo stravagante sono la più estemporanea epifania degli squilibri.

     E’ sempre stata convinta che i docenti fossero pagati troppo poco, aggiungendo che se una società vuol risparmiare sui buoni docenti, è perché non fa il conto di quanto costeranno alla fine i pessimi.

     Anche in classe non ha mai ostracizzato il dialetto, considerandolo una seconda lingua, ma mai dialettizzando l’italiano o italianizzando il dialetto: alcuni concetti andavano espressi nell’idioma locale.

     Mi ha sempre colpito l’espressione con cui i conoscenti latitanti la interpellavano: “Dove sei ora a fare scuola?” Questa espressione non era gergale, ma midollare: lei in effetti “faceva la scuola”. A volte perfino senza figure retoriche. Ci fu un tempo in cui fu svernò in una scuola dove la guerra alla pesantezza fu tale da precludere la presenza di personale ATA e collaboratori vari: i docenti dovevano suonare loro la campanella, in un rito che era a metà tra lo scampanellare dell’inaugurazione della legislatura e il richiamo all’ordine del giudice arbitro.

     Dopo quarant’anni (ma già molto prima) aveva l’intuizione diagnostica che sa tanto taumaturgo: a chi le chiedeva se le fosse necessario il registro per compilare una pagella o dare una comunicazione a un colloquio genitoriale, rispondeva che se era per quello non necessitava nemmeno di correggere i compiti o di interrogare. Bastava lo sguardo per capire. Il buon medico di famiglia, che sentenzia la diagnosi osservando il paziente. Per entrambe le professioni, “gli esami” appaiono secondari.

     I figli dei professori capiscono sotto forma di “intuizione sensibile” – come direbbe Kant – che  non basta farsi capire, occorre anche capire.

     E’ un artigianato di complicità: l’insegnante ha davanti a sé gente che intende a tutti i costi non deluderlo mostrandogli che sa tutto, anche quando spesso non sa nulla. L’esatto contrario del magistrato, ad esempio, che ha davanti a sé gente che intende a tutti i costi cercare di deluderlo dimostrando di non sapere nulla, anche quando spesso sa tutto.

     Forse sono diventato giornalista scrutando, sul divano, prima di addormentarmi, quello sferragliare di forbici intente a selezionare dal quotidiano un articolo che il giorno dopo sarebbe stato riproposto in aula. Quello per me era il concetto di elezione e di elevazione: riuscire ad attirare l’attenzione, in mezzo a tante pagine, e essere scelto per trovare rifugio nella cartelletta gialla e diventare poi appannaggio di tanti, farsi fotocopia. Una transustanziazione letteraria e emotiva.

     Rise quando le feci leggere un mio aforisma: “Era da poco insegnante e pensava già di saperne di più dei suoi alunni”. Essere insegnanti è uno stile di vita. Non porta a una deformazione professionale, semmai è il contrario: non è la professione che ti porta a una deformazione, ma una (de)formazione che ti porta a insegnare, sempre, a tutti. Questo modo che ha costituito per me un importante presofferto mi ha sempre urtato, sebbene non sia mai caduta nella dipendenza da parole: le ha sempre usate ma mai in forma stupefacente. Parole mai smaglianti,  ma nemmeno disidratate. Parole pregnanti, non vuoti a rendere.  Non so se è stata madre in quanto insegnante o insegnante in quanto madre. C’è un filo comune: era in cattedra ma ha sempre lasciato il palcoscenico agli altri. Agli studenti, a noi figli. Per questo è stata “matrice” che riassume sia la docenza che la maternità, avendo in sé entrambe le caratteristiche.

     Non mi hai mai incoraggiato a fare l’insegnante. Io l’ho sempre vista felice. E se avessi voluto essere felice avrei insegnato.        Ma io son nato per essere tormentato e inqueto. Per cui quel mondo non fa per me.