Trecento anni e scompariranno i nostri paesi? Dati e riflessioni

Trecento anni e scompariranno i nostri paesi? Dati e riflessioni

Saleri Alice – Si parla spesso di Venezia che verrà sommersa dall’acqua, meno di come sarà il nostro territorio in futuro, o meglio, di come “non sarà” per via della natalità, anzi, è più corretto scrivere, per via della denatalità.

Non è una questione da poco.

“The lancet” ha scritto un articolo dove ha preso in considerazione diversi parametri, ha elaborato algoritmi, studiato il fenomeno.

Se lo riportiamo su scala nostrana, ci vengono restituiti dei dati inquietanti.

Il Giornale di Brescia, qualche giorno fa, ha scritto che il nostro capoluogo sarà scomparso nell’arco di trecento anni. Pensate un bambino che nasce oggi e che probabilmente camperà cent’anni. Ecco. Tre vite lunghe così e stop. Fine della trasmissione. Brescia non esisterà più. E se questo toccherà a Brescia, che dire di tutti gli altri paesi?

I conti, senza bisogno di grandi studi di demografia, li sanno fare tutti. Basta prendere dieci giovani. Quanti sono i single? Quanti per scelta vivono relazioni continue non stabili e senza figli (non stiamo stilando alcun tipo di giudizio: soltanto analizzando), quanti convivono o si sposano e non hanno figli? Quanti hanno un figlio?

Ecco, tutte queste casistiche portano a diminuire nettamente la natalità, ovviamente.

Se dieci persone si sposano o convivono e hanno un figlio, significa, ovviamente, che alla loro morte da 10 persone (ossia 5 coppie) avremo 5 uomini e donne. Ossia in una generazione metà della popolazione. Se questi fanno lo stesso saremmo a metà della metà. In due generazioni da 60 milioni di italiani a 15 milioni, in tre generazioni un’Italia con 7 milioni di abitanti, ma questo nella misura in cui tutti hanno un partner col quale avere un figlio, ma dal momento che tantissimi non hanno figli, la media si abbassa notevolmente.

Certo, c’è anche chi ha due figli (sempre meno) e terrebbe invariato il tasso, così come chi ne ha tre o più, e lo alzerebbe, ma certo, basta guardarsi intorno, e non c’è una coppia con tre figli per ogni persona che non ne ha, così che da 3 persone (una coppia e un single) ce ne siano ancora 3 nella generazione successiva (i tre figli della coppia). I single, infatti, in Italia, sono circa il 34% della popolazione. Le famiglie con 3 o più figli sono nettamente sotto al 10% delle coppie.

A questo si aggiunge che oltre il 30% delle famiglie non ha figli.

Basterebbero dunque questi due dati: il 30% della popolazione è single senza figli e  il 30% delle coppie non ha figli (dunque il 30% di quel 70% che è sposato e convive) significa un altro 20% sul totale, ossia la metà della popolazione non ha figli. Significherebbe, dunque, in linea teorica, che il 50% della popolazione che ha figli dovrebbe avere almeno 4 figli (due per equilibrare le altre due persone che non ne hanno e due per pareggiare loro) affinché il saldo fosse invariato.

Ma se pensiamo che circa il 36% invece ha solo un figlio, significa che in una generazione da queste circa 7 persone ne nascerà una.

È naturale che quel 10 per cento che ha 3 o più figli non può sopperire, per cui sono necessarie delle riflessioni.

Qualcuno pensa, per evitare la desertificazione dei paesi più piccoli, ai servizi, perché è difficile che qualcuno viva in un paese senza ufficio postale, senza un oratorio, senza un supermercato. Tutto vero.

Ma la vera questione è cercare di agevolare la natalità con politiche mirate. I comuni possono far qualcosa, certo, ma è l’Europa e lo Stato Centrale che devono comprendere la gravità della situazione.

Vanno certamente rispettati coloro che non sentono il bisogno di essere genitori, per mille ragioni. Sono politiche dittatoriali quelle che spingono a generare in modo invadente, quasi la nascita sia un prodotto in serie: non  bisogna “convincere” a compiere un atto d’amore.

Ma altresì non è possibile che coppie le quali sognano di diventare genitori si scontrino ogni giorno con difficoltà spesso così insormontabili da dover accantonare l’idea di avere dei bambini o al massimo, facendo salti mortali, riescano a metterne al mondo uno. Impedire di fatto ai giovani che lo desiderano di poter vivere la loro vocazione alla maternità e alla paternità significa compiere uno degli atti più crudeli, più alienanti, più frustranti.

Le questioni da trattare sono molte, ovviamente: dagli asili nido (rette, ma anche orari, flessibilità) ai nido aziendali, dai congedi per madri e padri, alla flessibilità lavorativa, passando per spazi dove poter far vivere i bambini: un tempo si viveva nelle cascine, in molti, oggi chi potrebbe far vivere sei figli in un bilocale?

L’inserimento nel mondo del lavoro è un’altra questione: se due giovani terminano gli studi e iniziano a lavorare dopo i trent’anni, è realisticamente difficile che riescano a generare più di uno o al massimo due figli.

Certo anche la mentalità, questa meno responsabilità politica ma più della società, andrebbe esaminata: è così importante disporre di beni costosi perché altrimenti un bambino si sente escluso ed emarginato dalla società?

Si potrebbe poi aprire un dibattito infinito sul fatto che meno persone significa anche meno opportunità per queste persone, sia di lavoro, che di crescita, che di innovazione, insomma, un impoverimento generale, e non solo economico.