Perché piaceva tanto Richard Harrison

Perché piaceva tanto Richard Harrison

Ci deve essere una ragione per cui Richard Harrison è in queste ore commemorato da tanti.  Non era, infatti, un modello. Anzi. La sua effige non era ricavata ricalcando le impronte agiografiche del santo, piuttosto la sua era una scultura di egoismo, di individualismo, di arrivismo. Il motto che dava inizio alle puntate di Affari di famiglia, il reality che dal 2009 lo ha visto protagonista insieme al figlio, al nipote e al di lui amico, suonava pressappoco così: “Nella mia famiglia le persone vengono prima e solo per secondi i soldi, ma dipende a chi lo chiedi” e in quel momento un primissimo piano indagava le rughe del “vecchio” come era chiamato fin dall’età di trentotto anni. Non vi era in quell’uomo (o almeno nella restituzione televisiva cui si poteva attingere) alcuna traccia non di eroicità (da tempo l’erotismo ha sostituito l’eroismo sul piccolo schermo e non solo) ma neppure di umanità o di qualsivoglia schema valoriale. Era la rappresentazione plastica di quel mito americano che pulsa solo di verghiana materia. E nel suo caso “la roba” non era metafora di uno smarrimento spirituale, ma manifesta contemplazione della divinità che risponde al verbo: “oggettizzare”. Tutto ha un prezzo e ad essere comprata era prima di tutto la speranza dei disperati, i quali erano legati dai valori ma non conoscevano il valore di quanto dovevano vendere per rastrellare tozzi di sopravvivenza.

Il suo abito nero nel quale si smarriva la cravatta della stessa tonalità e che si diceva non abbandonasse neppure nelle piccole digressioni extra lavorative (non abdicò nemmeno per un giorno la sua presenza al negozio) era la divisa di un capitalismo perennemente insonne, di un’eleganza non di facciata, ma di faccia, pirandellianamente di faccia, al punto che si sostituisce al proprio volto, perché l’avidità non è mai scenica. La quantità badiale di caffè americani (il nettare degli dei, come li soprannominava nel suo laicistico lessico), le ali di pollo in altrettante ciclopiche consumazioni al punto da subordinare la sua presenza alla loro nelle uscite con i parenti, le torte americane bulimicamente trangugiate in quegli arresti domiciliari autoinflitti che erano diventati custodia cautelare di se stesso e dei propri beni. Si sa che la violenza è americana come la torta di mele, asseriva Enzo Biagi, e lui era un personaggio violento quanto ingordo nella sua incomunicabilità.

Perché allora piaceva tanto questo veterano della marina militare votato ad una pubblicità come commercio dell’anima più che anima del commercio? Perché la sua sgarbatezza era sempre accomodante verso se stesso: non era un suggeritore di manierismi cortesi da marketing 4.0 così improbabili e artefatti da porre in essere, no, lui dimostrava che si poteva raggiungere mammona restando fedeli alla propria maleducazione, senza tradirla e cementificarla dentro alla valigetta del perfetto venditore che contrariamente al dogma non ha per lui sempre ragione, ma viene deriso, sbeffeggiato, talvolta perfino allontanato. Ecco perché il suo monte dei pegni a Las Vegas era meta di pellegrinaggio esistenziale, perché si voleva vedere l’ombra (delle stesse fattezze e cromatismi della persona) di colui che è riuscito, come Tom Sawyer a convincere che bisogna esser pagati per poterlo aiutare a dipingere il suo steccato.

Nessuno dinanzi a lui mostrava complessi di inferiorità, dai giochi improvvisati nel retrobottega fino alle previsioni risultava sempre il peggiore, eppure era il vincente, il capo con il cappello bianco sul capo. Il suo (pre)occuparsi solo del business come esorcismo alla morte era una forma teurgica in una società smarrita.

di MATTEO SALVATTI