Salvatti: «Vi racconto i miei esami di maturità»

Salvatti: «Vi racconto i miei esami di maturità»

 

Caro Matteo,

sto per affrontare gli esami di maturità. Ti va di raccontarci i tuoi?

Grazie, Manuel

 

Sì, tanti ricordi legati a quell’arroventato luglio di quasi vent’anni fa della mia “maturità” come si definiva una volta l’esame di Stato (ora si è capito che non bastano due lauree per essere maturi, anzi, la maturità non c’entra proprio con la cultura).

Allora era il primo anno nel quale si sperimentava il nuovo tipo di commissione (metà dei professori erano esterni!) 

Passavamo i pomeriggi a scuola per tastare e testare qualche prova d’esame. Erano momenti intensi, tra tranci di pizza (freddi) e birre (calde).  Le notti “prima degli esami” a turno nelle case dei compagni benestanti che offrivano le loro taverne dove svernavamo per ripassare facendo l’alba. Io scrivevo le tesine un po’ a tutti, per me optai per: “Il vento di filosofica follia: i movimenti di contestazione e la Beat Generation”, con collegamenti con la scuola di Francoforte e Kerouac.

Parlavamo del viaggio al termine degli esami: io sarei andato a Strasburgo, dove il mio amico Stefano Bertozzi lavorava come alto funzionario al Consiglio d’Europa. In quei giorni ognuno, al Liceo Scientifico Pascal di Orzinuovi, era veramente se stesso e gli insegnanti lasciavano libertà d’autodeterminazione. Chi fumava fuori dalla finestra, chi veniva in canottiera, io, per provocazione nei confronti dei compagni atei, svolazzavo con camicia col clergyman.

A me fu affidata l’opera di persuasione affinché convincessi gli interni a suggerirci domande e temi d’esame per la terza prova (stilata da ogni singolo Istituto, a differenza delle prime due ministeriali) dato che ero quello capace di captatio benevolentiae e di arruffianarsi i docenti. Con ognuno bisognava studiare una strategia.

Per accedere alla cassaforte emotiva di uno dei prof più temuti spostai il registro su un piano atipico: “Professore, io ho un desiderio, la prego, me lo accordi” e lui: “So già cosa vuoi, non se ne parla” e io: “Sono in imbarazzo, ma vorrei tanto, al termine degli scrutini, poterle dare del tu, è il mio più grande desiderio“.

Ricordo poi la beffa paradosso del tema. Io mi avventurai in quello “sulla piazza” (dove tra l’altro campeggiava, accanto al testo della canzone “Piazza Grande” di Dalla un’immagine di Bologna: feci presente in modo urbano che Piazza Grande sta a Modena e che quella era Piazza Maggiore). Ad ogni modo io, che all’epoca ero già un giornalista nazionale (tenevo una rubrica dei giovani su Donna Moderna e mi occupavo di libri sul mensile di Famiglia Cristiana) studiavo per conto mio il greco e strutturai tutta una discettazione sulla piazza e sul concetto greco di “piazzeggiare” (agorazein) in italiano intraducibile e su colui che piazzeggia (agorazonta). Niente da fare. Era anche il primo anno in cui internet approdava in forma popolare nelle nostre case e si farfugliava che gli italiani in Australia avessero avuto i titoli precedentemente per via del fuso orario e dunque gli sgamati riuscissero ad impossessarsi delle tracce. Per questa malfidenza, quindi, io, unico studente che prendeva solo “10” in tutti i temi, mi aggiudicai in quindicesimi il corrispettivo di un 6 (ovviamente mi ribellai: se ritenevano avessi copiato avrei dovuto essere ipso facto espulso con tanto di falso in atto pubblico, ovvio avrebbero dovuto portare le prove della colpevolezza, compresa la loro di culpa in vigilando, in caso contrario se il tema era di alto livello meritavo il massimo, un vago “troppo bello per averlo scritto tu” dunque una sorta di 6 politico non voleva dire nulla, anche perché corretto non dalla mia docente di italiano, che essendo esperta di filologia e avendo letto molti miei lavori avrebbe facilmente ravvisato la mia firma.

All’esame orale non ci furono problemi. Il mio scoglio era fisica. Pensai di dirimerlo in questo modo. Attesi nel parcheggio della scuola la docente il mattino del mio esame (era fondamentalmente buona, ma molto rigida, non le si poteva riuscire a scucire nulla, nemmeno nelle cene che organizzavo con gli altri prof). Appena scese, la bloccai, la guardai fissa negli occhi e di getto me ne uscii con un: “Io di fisica non capisco nulla. Conosco solo le equazioni di Maxwell e il vettore di Poynting, se mi chiede qualunque altra cosa sappia che deliberatamente sta scegliando di mettermi nei guai“. Lei mi fissò per sette secondi e poi sussurrò: “Sei un infame“. Poi mi interrogò sulle equazioni di Maxwell.

Il timore dei miei compagni era, all’orale, per quanto riguardava italiano e storia. Perchè, mentre per le altre discipline ogni membro della commissione svernava nella più grassa ignoranza, in storia e in italiano c’è sempre la possibilità che un profe di matematica, o di inglese, o di astronomia o di arte intervenga e chieda qualcosa gettando lo studente nel panico.

Innanzi tutto suggerii, in caso di impreparazione su di un tema, di tentare uno dei miei cavalli di battaglia: ribaltare la prima ovvietà di cui si aveva conoscenza attribuendone dubbi a fantomatici autori inventati al momento. Per cui se ti interpellavano sulla Offensiva della Slesia e non sapevi nulla se non che avevano vinto i russi, potevi con piglio risoluto iniziare a discettare che, secondo il Guarinotti, “in realtà la strategia dei tedeschi fu tale da poter considerare una vittoria de facto in loro favore”. Qui si poteva iniziare a improvvisare con frasi del tipo: “Il suddetto Guarinotti (ovviamente storico inesistente) sostiene infatti alla luce di un sano revisionismo che la vittoria non possa essere considerata come mero conteggio alfanumerico e neppure secondo quanto ci viene restituito da una visione che appare alquanto distorta, se si considerano nuovi parametri emersi non ravvisabili quando ecc…” tutto questo avrebbe destabilizzato il docente che, sentendosi impreparato davanti alla citazione di un autore sconosciuto, preso dalla preoccupazione di sfigurare dinanzi ai colleghi e alla commissione avrebbe quantoprima cambiato argomento.

Oltre a questo stratagemma (che presupponeva però una dialettica non da tutti) pensai di risolvere la questione in modo empirico, non potendo su questo fronte pensare ad altre tecniche. Bisognava puntare sul pragmatismo. Per cui, con la complicità del bidello Nando, il giorno antecedente l’inizio degli orali mi recai nella stanza adibita agli esami. Da una parte una lunga schiera di banchi attaccati formava una scrivania immensa dietro alla quale stanziavano una decina di docenti e il presidente di commissione. E davanti, in centro, una sedia, quella dell’esaminando. Ecco: sostituii quella sedia con una presa dall’aula di informatica. Una sedia con le rotelle. In quel modo, pensai, il candidato poteva di volta in volta spostarsi agevolmente nel punto in cui si trovava il professore che lo interrogava in quel momento e, se avesse parlato a bassa voce, avrebbe disolto gli altri dalla curiosità di partecipare all’esame e dall’intervenire. Con la classica sedia di legno quello sarebbe stato impossibile. La cosa funzionò.

Matteo Salvatti